Recensioni negative ristoranti che
Foto di Lightfield Studios via Adobe Stock

Ormai sembra impossibile poter recensire un ristorante in maniera negativa

Cosa succede quando i critici gastronomici parlano male di un ristorante? Chef e ristoratori sono capaci di accettare delle recensioni negative?
Giorgia Cannarella
Bologna, IT

“In Italia la critica gastronomica è un comparto di elogiatori seriali. È raro imbattersi in una stroncatura”

Qualche anno fa abbiamo chiesto ad alcuni chef di rispondere alle recensioni negative di Tripadvisor sul loro ristorante. Ne sono usciti quattro video, piuttosto divertenti, in cui i cuochi rispondevano a tono alle critiche mosse dagli utenti (o ai loro insulti). In fondo qualsiasi persona di buon senso sa che il portale pullula di recensioni false e che buona parte degli utenti che ci scrive sopra non ha particolari competenze in ambito ristorativo. Perché uno chef dovrebbe cercare un confronto serio — al netto del peso che un voto basso può avere sul rating di Tripadvisor del ristorante, peso che però, più si sale di livello, più è relativo?

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Ci siamo così disabituati a sentir parlar male di un ristorante che il post di un blog — non un articolo sul New Yorker — fa il giro del mondo?

Eppure un caso recente ci ha spinto a riflettere sul rapporto problematico che gli chef hanno con le critiche negative. La blogger Geraldine DeRuiter è andata a cena al ristorante Bros’ a Lecce con il marito e degli amici. Sul suo blog Everywhereist ha pubblicato un resoconto della sua esperienza intitolato “Abbiamo mangiato al peggior ristorante stellato di sempre”. DeRuiter critica tutto del ristorante guidato da Floriano Pellegrino e Isabella Potì, dalle porzioni dei piatti alla temperatura di servizio, dalla preparazione dei camerieri all’atmosfera del ristorante. Per lei la cena non è stata una cena ma una (costosa) performance, vuota e pretenziosa.

Il caso del ristorante Bros’ a Lecce

DeRuiter non è una giornalista. Non è una critica gastronomica. È una blogger —peraltro con un seguito social abbastanza trascurabile. Non che questo renda meno valida la sua opinione, peraltro espressa in maniera brillante, o le tolga la libertà di dire cosa pensa di un ristorante solo perché non lo fa di mestiere. Però rende quantomeno inaspettato il successo del suo post. La sua “recensione” è diventata virale al punto che perfino Pete Wells, celebre critico gastronomico del New York Times, l’ha condivisa su Twitter definendola la più scioccante e divertente che abbia mai letto. Come ci ha detto la food e travel writer slovena Kaja Sajovic: “Il fatto che sia diventata così virale mostra quanto le persone siano affamate (pun intended per titoli di questo genere. È abbastanza ovvio che lei [DeRuiter, NdR] non abbia esperienza di ristoranti fine dining o, se ce l’ha, saranno stati ristoranti molto classici e certo non concettuali. Non capisce il concetto di amuse bouche o che in un menu di 27 piatti non ci possano essere le porzioni di una pizza.”

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Su Usa Today lo chef Floriano Pellegrino ha risposto alla recensione con un documento di tre pagine, completo di disegni di un uomo a cavallo, in cui fondamentalmente definisce la sua cucina come arte provocatoria e avanguardista. Specificando anche che dopo la pubblicazione del post Limoniamo, una sorta di piatto in cui servono un dessert che aveva scandalizzato la blogger, in vendita sul loro sito a 58 euro, è andato esaurito. Insomma, purché se ne parli.

Quando scrivere una recensione negativa sembra (quasi) impossibile

“Davvero puoi fare una recensione pessima di un ristorante a cui sei stato invitato, con voli e hotel coperti? È difficile. E anche un po’ ingiusto”

Non mi dilungherò né sul contenuto della recensione dei Bros’ né su quello della risposta. Quello che secondo me è interessante è la viralità della recensione. Ci siamo così disabituati a sentir parlar male di un ristorante che il post di un blog — non un articolo sul New Yorker — fa il giro del mondo?

Credo — temo — che il motivo principale sia quello indicato da Kaja Sajovic: “I viaggi riservati alla stampa. Sappiamo tutti che i giornalisti gastronomici non vengono pagati abbastanza per coprire i costi di una cena al ristorante, quindi i viaggi stampa sono diventati una necessità per fare il nostro lavoro. E questo crea un sacco di conflitti etici. Ora, davvero puoi fare una recensione pessima di un ristorante a cui sei stato invitato, con voli e hotel coperti? Penso sia difficile. E forse anche un po’ ingiusto.”

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Qualcuno ci riesce. Ma appunto non è facile. Ho cercato di parlare con colleghi da diverse parti del mondo per provare ad avere un’immagine il più possibile completa del settore. Dice la food writer Paola Miglio, editor del sito peruviano El Trinche: “Se non mi piace qualcosa lo dico. E lo scrivo. Anche quando è un invito. Nei miei tre anni da critica gastronomica in un giornale mi è capitato solo una manciata di volte di venire bullizzata sui social di un ristorante o di uno chef. Ma non per questo ho mai sentito la pressione di parlare bene di qualcosa o qualcuno. Certo cerco di non superare il limite della personal stuff: non parlo di vita privata, non sono sarcastica. Voglio raccontare la mia esperienza ma voglio anche aiutare un locale a crescere.”

In realtà alcuni critici e giornalisti, come Jay Rayner o A.A. Gill, hanno fatto dell’ironia tagliente e financo maligna un punto forte delle loro recensioni e il motivo della loro celebrità — basti pensare che l’ultimo libro di Rayner si chiama Wasted calories and ruined nights. Ma sono l’eccezione in un settore caratterizzato dalle iperboli celebrative, i complimenti esaltatori, gli entusiasmi facili.

Il rapporto tra chef e critica gastronomica

“La stampa gastronomica fa corporativismo con i ristoratori e non tra di noi che siamo sottopagati”

Quello della correttezza da ambo le parti è un punto dolente. Dice il giornalista gastronomico Gabriele Zanatta di Identità Golose: “Sono pochi gli chef che rispondono bene e a tono a una critica. E in più scrivere ‘di fino’ non è il loro mestiere — anche se lo sta diventando sempre di più — quindi la lotta è impari.” Come si è arrivati a questo punto? Secondo lui “la questione va inquadrata dal punto di vista storico. Per secoli la figura di cuoco era invisibile. Dalla nouvelle cuisine in poi i cuochi hanno raggiunto una certa rilevanza pubblica, per arrivare alla febbre degli ultimi due decenni. Per forza si è generata un’intolleranza alle critiche! In duemila anni non sono mai stati così sul piedistallo.”

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“La critica non deve essere un pretestuoso esercizio di narcisismo”

Ma secondo lui “questo cuoco-centrismo si sta attenuando — si fa attenzione non solo alla cucina ma a tutti gli aspetti che rendono un ristorante un ristorante. E da parte degli chef vedo più predisposizione all’ascolto, a patto che la critica non sia solo un pretestuoso esercizio di narcisismo. Tendenzialmente le mie critiche le faccio in privato: preferisco esercitare il mestiere di critico con i dubbi e lasciare le certezze a chi ce le ha.”

Questo è il modus operandi di molti: parlare bene in pubblico e “male” in privato. Anche se alcune testate fanno eccezione. Parla Chiara Cavalleris, direttrice di Dissapore: “Sul settore gravano cene stampa cui seguono inevitabilmente critiche positive. Tranne rari casi noi non facciamo recensioni molto negative, facciamo recensioni che contengono anche critiche. Ovviamente sui social funzionano quelle estremamente positive o quelle totalmente negative — fanno colore. Secondo me non è tanto normale quello che è successo ai Bros’. Se i ristoratori fossero abituati alle critiche sarebbe stato tutto più all’ordine del giorno. Ho notato anche un’altra cosa: la recensione positiva è talmente un assoluto nel settore che i ristoratori fanno un piccolo sabotaggio. Non è un loro dovere ricondividere, eh, però noto che se in un articolo non prendono un voto altissimo o una fiumana di complimenti non lo condividono mai sui social. Ma la cosa più grave è un’altra.”

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Ci fa l’esempio di un articolo sull’Osteria Francescana pubblicato sul loro sito che conteneva alcune critiche: “Osava toccare un mito, Massimo Bottura, che non si può mai mettere in discussione. Subito dopo sono arrivati due pezzi riparatori, su due testate diverse, che sembravano voler mettere una toppa sul nostro pezzo. La stampa gastronomica fa corporativismo con i ristoratori e non tra i giornalisti stessi che sono sottopagati. Vedi nel caso dell’Enoteca Pinchiorri — non si dà mai la notizia negativa.”

“Se tu fai davvero avanguardia perché curarsi del pensiero di una persona comune che per definizione non può capire l’avanguardia?”.

Per quanto mi riguarda anche se vengo invitata in un ristorante mi sento libera di segnalare gli aspetti che non mi sono piaciuti. Se le cose che non mi sono piaciute superano quelle che non mi sono piaciute, semplicemente non ne scrivo, cosa per la quale sono stata criticata (e anche insultata) da PR e ristoratori secondo i quali mi sarei “approfittata” dell’invito — segno che sono abituati a un altro modus operandi. Non mi ritengo una paladina dell’etica professionale: cerco di fare quello che ritengo corretto per i lettori.

Confrontandomi con diversi chef, in veste più o meno professionale, non ho potuto fare a meno di notare come anche molti di loro patiscano la mancanza di un confronto vero, reale, con i giornalisti. Anche quando non va a loro favore. “La critica gastronomica in Italia è un comparto di elogiatori seriali. È raro imbattersi in una stroncatura,” dice Matteo Fronduti, chef di Manna. “Certo c’è critica e critica. A volte gli articoli sono un atto di compiacimento del giornalista verso se stesso.” Soprattutto, fa notare Fronduti, non ha senso cercare il plauso delle masse se si è davvero convinti che la propria cucina sia un’opera d’arte: “Se tu fai davvero avanguardia perché curarsi del pensiero di una persona comune che per definizione non può capire l’avanguardia?”.

Prendiamo la recensione che Wells ha scritto sul nuovo menu degustazione completamente vegano dell’Eleven Madison Park di New York. Una stroncatura in piena regola, in cui il critico accusava in maniera nemmeno tanto velata il ristorante tre stelle Michelin di cavalcare la green wave della sostenibilità, salvo continuare a servire carne in una private dining room per i clienti più danarosi. Lo chef Daniel Humm è uno dei cuochi più famosi al mondo. Avrebbe potuto permettersi di mandare la sua replica alle testate più lette degli Stati Uniti. Non l’ha fatto. Continuerà a vendere i suoi menu a 335 dollari anche se il critico aveva detto che un suo piatto sapeva di lucido per legno. E tanti saluti alle avanguardie incomprese.

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